Bene: quel pezzo è di Beppe Severgnini.
Malato di sardegna, dice sempre che se non vivesse dov'è, vorrebbe stare a Cagliari o Trento.
Quanto alla Sardegna raccontata, ecco un pezzo della mia:
SEI LIRE
Il mio nome è Enrico, ma tutti mi chiamano Sessei.
Ho smesso di chiedermi perché, sono cose che nascono così, e dopo tanti anni nemmeno chi l’ha coniato se lo ricorda. Sono Sessei, per tutti.
Piccolino segaligno tutto nervi. Duro come il granito. Bisogna esserlo, di questi tempi.
Sono un padre di famiglia, ho due figlie e uno scricciolo di ragazzino magro come un chiodo, magro quasi più di me.
Dico “quasi” perché è difficile essere magri più di me, anche se la guerra è finita da poco e qualcosa da mangiare si trova, e tutto quello che trovo lo do a loro, io non mangio, pazienza, mi tengo solo lo stretto per tirare. Odio tirare, odio quel posto, ma tocca mangiare.
Sono andato all’ aeroporto, ma non avevano bisogno di gente per togliere gli stukas dalla pista, ho fatto giusto in tempo a fregarmi un albero motore, l’ho messo attaccato al portone di casa che stava cadendo, e il portone, un paio d’anni in più, così acconciato, se li fa.
Un perno di guerra, per il mio portone che va a pezzi. Senza essere stato bombardato dallo stuka, che a qualcosa e servito anche da rottame.
Sono andato da Checcheddu Fenu, quello delle vigne, ne aveva tante, lo conoscevo e gli ho passato un paio di pacchetti di surrogato, a volte, due foglie di tabacco, anche, ci sono andato ma mi ha detto “Sessei, io ti vorrei prendere, ma vedi, ho tanti parenti, a vendemmiare quest’anno c’è poco, lo so che Gigina e Lina e Rosalba e Pinotto devono mangiare ma io tengo famiglia, come te, capisci?”
E io ho capito, e allora sono andato a girare tutto il giorno, alla Scaffa, a San Michele, alla salina, mentre la carne finiva e il latte pure e Zia Lucinda con le uova mi ha detto che se le dava a me non le vendeva, e tutti dicono la stessa cosa, “tocca mangiare e campare la famiglia”.
Peccato che Zia Lucinda di famiglia non ne ha, ma se se ne è “dimenticata”, non tocca a me ricordarglielo.
E a tirare sale mi hanno visto e mi hanno detto “tu non ce la farai mai”, e io ho sollevato tre sacchi insieme, e loro mi hanno detto “guarda che però devi farlo tutto il giorno, lascia perdere”.
E va bene, ho lasciato perdere. Si vede che avevano famiglia pure loro.
E alla fine sono andato a Via del Redentore, e mi sono messo a tirare.
Perché io sono il migliore.
Non capisco. Per me è semplice, è una stupidaggine, io tiro e la palla fa quello che voglio, ma è normale, DEVE fare come dico io, dopotutto l’ho tirata apposta, no?
Dicono di no. Stanno a bocca aperta a guardare.
Io gioco a “Blocco”, o all’italiana. A sei lire il punto. E per me è facile, non conosco la fisica o la gravità o il rapporto di causa ed effetto, muovo il polso, muovo la stecca e quando colpisco la palla, una carezza improvvisa e leggera, faccio quattro sponde e boccino, perché è normale farlo.
Sei lire il punto e c’è gente che mi viene a vedere, c’è la folla quando gioca Sessei, e c’è gente di fuori che mi viene a sfidare.
Si fanno prestare i soldi per venire a giocare con Sessei, io non avevo un soldo ma non ho mai perso una partita e non so come fanno gli altri a non vedere lo spazio di rinterzo per andare ad appoggio o il filotto-di-due-sponde-e-boccino.
Arrivano a sfidarmi, come si fa col pistolero più veloce del west.
Si portano le stecche da casa. E lasciano i soldi, tutti.
E’ arrivato uno di Oristano, l’hanno accompagnato con la tradotta, si è fatto non so quante ore in tradotta e a piedi per giocare con Sessei, e io lo faccio acchitare.
Faccio sempre acchitare prima gli ospiti, mi pare doveroso, e quello si leva la giacca, la scuote dalla polvere, si rimbocca le maniche, si mette tutto piegato a studiarsi il tavolo, ci passa la mano sulle sponde per vedere se sono regolari.
E lo sono. Io non imbroglio, io sono bravo.
Poi tira un paio di colpi di prova, e infine si concentra e fa un acchito con boccino sulla sponda lunga. Io allora tiro un effetto contrario di tre sponde e buca e faccio subito nove punti.
A sei lire al punto sono soldi, la carne costa.
Fortuna che almeno posso andare a pescare gratis, sul canale ci pascolano i muggini, ogni tanto persino un’anguilla, ho fatto una fiocina con una canna e una forchetta, sono diventato bravo, e anche Pinotto se la cava.
E tocca di nuovo a me, altri sette punti contro i cinque che ha fatto Oristano.
Lo odio, tirare, mi pare di rubare i soldi, il talento non si compra, nemmeno a sei lire al punto.
Però, loro, lo vedo che sono contenti anche se perdono, e poi c’è Frantziscu Lai detto “Motoretta” che con le scommesse che fa su di me si è comprato il nuovo vomere e coi buoi di Settimio Desogus detto “Conch’è Bagna” (che alla fine i buoi non se li è mangiati, la guerra è finita giusto in tempo), si sono rimessi a sarchiare, hanno tolto non so quanti pietroni con il picco, dicono che ci piantano una vigna, nel campo. E le viti?
“E stai tranquillo, già le troveremo, o Sessei!”
Mi sa che le trovano come nel caso del mio perno. Un pò di “viti di guerra”, ho come l’impressione che presto Checcheddu Fenu o chi per lui piangerà la scomparsa di “un paio” di piantine.
“Un paio”, da noi, può essere 2 o 37 o 150, dipende.
Dicono che poi mi danno un pò di uva per farmi il vino.
Beh, se me la danno, l’uva, me la prendo. Alla salute di Checcheddu.
E non ho dubbi che ne farò parecchio, di vino. Per quei due, “un paio” è sempre “il massimo che riusciamo a portarci via”. Basta che non si facciano acchiappare, quelli sparano a sale.
E il duca Debonis con le scommesse su di me si è addirittura permesso il viaggio a Venezia, ma lui i soldi ce li aveva già.
Dicono che i soldi che ha li ha fatti coi tedeschi, lui che parlava un pochino di francese e comunicava così con quel ragazzone di Amburgo, o dove cazzo era quel posto pieno di case a punta e di freddo.
Una volta ho visto una foto che il ragazzone aveva nel portafogli, c’era la neve, e una signora con lo sguardo un po’ lontano e una nuvoletta di fiato che usciva dal suo respiro, mi è venuto una specie di brivido, ma non era per il freddo, era per la tristezza di dover abitare in un posto così. E la signora lo sapeva e infatti non sorrideva.
Quel giorno ho fatto una lunga passeggiata. Al mare. Al caldo.
Lui, il Duca, aveva le bestie, e ai tedeschi gli dava ospitalità vino e formaggio e compagnia, e quelli lo lasciavano in pace, ma nessuno se l’è presa, nessuno lo ha cercato, “dopo”, lo sanno tutti che teneva quei due ebrei a servizio facendo finta che erano Albanesi della colonia.
Forse lo sapevano pure i tedeschi, ma hanno lasciato perdere, e si sono bevuti un bicchiere.
E’ un bravuomo, il duca.
E puntava davvero forte, sempre su di me. Anche quando è arrivato Mantega.
Quella volta, si sono messi in sette per coprirlo.
Mantega era forte sul serio, lui col biliardo ci viveva anche bene, dicevano che non ce n’era così bravi come lui, è venuto apposta per me, e ha voluto pure sorteggiare l’acchito. E il Duca si è portato un sacco di soldi. E nemmeno mi ha detto nulla, tipo “dai, coraggio Sessei” o “Non ti preoccupare”, lo sapeva che nessuno era più bravo di me, nemmeno Mantega coi suoi tirapiedi tutti vestiti da damerini, e noi zozzi e con le scarpe risuolate. Chi ce le aveva, le scarpe.
E il Duca che era pulito ed era il più damerino di tutti, ma “dentro” era zozzo come noi, ha messo i soldi, ha aspettato che i tirapiedi di Mantega coprissero la posta, e senza aspettare un secondo se n’è andato al passeggio a prendere un gelato, e poi è passato a ritirare la vincita.
Come se nulla fosse.
Perché quando Mantega ha voluto sorteggiare l’acchito, il Duca mi deve aver visto lo sguardo.
E io Mantega non l’ho, “battuto”…No.
L’ho pestato, distrutto, massacrato, tre volte di seguito, gli ho dato “partita”, “riperdita” e “bella” (figuraccia che hai fatto!!!).
Mi ha dato troppo fastidio che è arrivato come se fosse il padrone e ha voluto sorteggiare l’acchito, mi sono offeso. E se si offende Sessei piangono in molti.
Ho una dignità, io.
Sarà pure zozza e scalza, ma è dignità.
E io tiro, ma non scommetto. Mai.
Appena ho i soldi per mangiare me ne vado, mi prendo una gazzosa e mi fumo una nazionale, se me la offrono.
Che se me le compro poi prendo il vizio, e il vizio costa.
Io gioco e campo la famiglia, e basta. Dice che forse fanno una chiamata per guidare il camion della benzina e io sono bravo con il camion, anche a ripararlo a calci e sputi se occorre, sono la persona giusta. E mentre ci penso faccio due sponde e tre punti.
Ho una famiglia da campare.
E fino ad ora, tutti hanno sempre mangiato, a casa mia, colazione pranzo merenda e cena. Anche se siamo in tempo di guerra-finita-da-poco, e lavoro non ce n’è, speriamo che chiamino per il camion.
Non mi piace, tirare.
Col camion farò il salto di qualità, si.
Guadagnerò la metà, e sarò felice.
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