| Cari ragazzi...questo post mi è costato tanti giorni di fatica e chiedo venia se è lunghissimo. Consiglio solo a chi è veramente incuriosito dalla storia sarda antica di continuare la lettura ma prometto che chi avrà il tempo e la voglia di leggere rimarrà soddisfatto e aggiungerà una briciola di orgoglio sardo alla sua personalità.
Buona lettura.
La fine del mondo è stata preannunciata varie volte nel passato e nel presente, ma nel 1200 a.C. avviene davvero, e nessuno l’aveva prevista. Nel giro di una generazione scompaiono le più grandi civiltà del tempo. Migliaia di persone muoiono o perdono ogni cosa. Tutto è crollato di colpo ma quello che è successo resta un mistero. E’ lo stesso disastro a cui fanno cenno l’Iliade e l’Odissea di Omero. Il libro di Giosuè e quello dei Giudici del Primo Testamento. Ma cosa ha provocato questa immane catastrofe? E’ stato l’uomo o madre natura? Gli oggetti lasciati dagli antichi permettono agli archeologi di ricostruire il passato: i tesori della tomba di Tutankhamon, le torri in rovina dei maestosi palazzi di Cnosso, il vasellame e i rilievi su pietra che descrivono enormi ricchezze e guerre senza fine. Siamo nell’area del Mediterraneo nel 1300 a.C. in piena Età del Bronzo, la lega in cui sono forgiate le armi dell’epoca. Esteso dall’Egitto fino al Mar Nero, il mondo civilizzato dell’epoca è un amalgama di molte popolazioni dominate dai re e dai loro eserciti. I minoici e i micenei, gli eroi delle leggende omeriche, costruiscono i loro palazzi in Grecia, a Creta e nelle isole egee. Il Faraone Ramesse II, lo stesso che è citato nel Primo Testamento, trasforma per sempre con i suoi celebri monumenti il paesaggio di Karnak. I bellicosi Ittiti, i nemici giurati dell’Egitto, dominano l’odierna Turchia e il nord della Siria, mentre i Cananei, i mercanti delle grandi rotte commerciali, controllano quella che, in seguito, diverrà nota come Terra Santa. E’ un mosaico di molti regni diversissimi tra loro per cultura e per struttura sociale. Eppure quando gli archeologi iniziano a scavare in quest’area, negli anni ’30, scoprono una inquietante costante. Ci sono i segni di una serie di eventi catastrofici: per una ragione o per l’altra gran parte delle principali città e dei palazzi è andata distrutta. Le tracce di devastazione sono piuttosto estese praticamente in ogni angolo dell’area, e il periodo del collasso è lo stesso: gli anni a cavallo del 1200 a.C. Nel giro di 50 anni si registra la scomparsa di almeno quattro grandi civiltà. Spariscono i micenei, i minoici, gli ittiti e i cananei, e l’Egitto ne esce così indebolito che non tornerà mai più lo stesso. E’ questa la cosa straordinaria: le grandi potenze del mondo antico vengono ridotte ai minimi termini nel giro di un paio di generazioni. L’epoca di Ramesse II ha un inizio vigoroso, caratterizzato dalla costruzione di alcuni edifici più belli della storia e da un incredibile ricchezza. Poi nel tessuto sociale, nell’economia e nella religione compaiono i segni di un inesorabile declino. Durante il regno di Ramesse III c’è un’inflazione tremenda, i monumenti diventano più piccoli, si registrano enormi problemi economici in rapporto alla base imponibile perché gran parte della terra tassabile è stata rimossa dai registri catastali. Molti ritengono che a partire da questo periodo gli egiziani perdano la fiducia in se stessi, ora ci si rivolge agli Dei per motivi molto diversi. Nei geroglifici troviamo preghiere del tipo: “Dio aiutami”, che prima di allora non si erano mai viste. Dopo un secolo di progresso che vede lo sviluppo della prima scrittura alfabetica a Ugàrit nel 1300 a.C. e della prima annotazione musicale in Siria, i documenti scritti si interrompono di colpo. Quella che segue prenderà un nome emblematico: l’Età oscura. Nell’area dell’Egeo e del Mediterraneo Orientale quest’epoca ha due connotazioni: da un lato il mondo antico perde gran parte delle caratteristiche di grande civiltà. In effetti si fa fatica a parlare di civiltà nel senso che diamo al termine, perché per un paio di secoli scompare. In Grecia dimenticano la scrittura, non sanno più come costruire grandi edifici e ci vogliono 300 anni per uscire da questo empasse, ma è un periodo oscuro anche per gli studiosi. Senza testimonianze scritte gli archeologi restano perplessi di fronte alle migrazioni di massa di tutto il mondo antico risalenti al 1200 a.C. Sull’isola di Creta i mercanti e gli artigiani lasciano la costa per spostarsi nell’entroterra, fino alle regioni montagnose del centro dell’isola, popolate da contadini e pastori. Nell’istmo del nord, sembra che nel periodo miceneo non ci fossero insediamenti ad eccezione di un esiguo numero di piccoli villaggi. La popolazione è scarsa. Nel XII secolo a.C. cresce in modo significativo, ma da dove provenisse questa gente e per che motivo non è affatto chiaro. Le città devastate che si lasciano alle spalle testimoniano che il loro non è stato un esodo pacifico. E’ molto difficile determinare le cause di eventi di questo tipo. Quando si scava è logico che si è alla ricerca di ciò che è andato distrutto, alle tracce di incendi, di cenere, di legno bruciato, di scheletri…ma cosa ha provocato tutto ciò? Forse la risposta non va cercata fra le macerie di questi palazzi, ma nelle montagne che li sovrastano. Alcuni archeologi hanno trascorso oltre un ventennio a ripercorrere i sentieri che portano sulle ripide vette dell’Egeo. Ed è qui che hanno seguito le tracce dei sopravissuti nella speranza di scoprire come e perché il loro mondo è crollato. Nelle montagne e valli dell’Egeo umili pastori e contadini coltivavano orzo, lenticchie e ulivi. Nell’estate del 1983 l’archeologo polacco Krzysztof Nowicki, che all’epoca è un ventiseienne che studia per il dottorato, si arrampica per la prima volta sul monte Karfi, sull’isola di Creta. Lo studente vuole studiare un altare costruito sulla sommità del monte nel periodo neolitico. Ma una volta arrivato a 1200 metri di quota, il polacco è attratto dalle rovine di un villaggio di montagna che fu scoperto negli anni ’30 dal celebre archeologo John Pendlebury che poi ha abbandonato gli scavi. Dopo aver sperimentato uno dei rigidi inverni della vetta di Karfi, l’inglese ha dedotto che si tratta di un insediamento solo stagionale. Ma a Nowicki queste rovine composte da grandi blocchi di pietra sembrano qualcosa di completamente diverso. Quello che è interessante, delle case di Karfi, è che sono ben costruite. La tecnica costruttiva dimostra che questa gente intendeva vivere per molto tempo in questo villaggio e che si trattava di un insediamento permanente. La mappatura e la ricostruzione del sito ottenuta dalla pianta emersa dagli scavi confermano i sospetti del giovane archeologo. Gli scavi hanno portato alla luce ben 30 case. Allo stato attuale queste costruzioni sono in un pessimo stato di conservazione, tuttavia si possono distinguere le pareti e le singole stanze. Siamo in grado di distinguere anche le singole abitazioni. Quello di Karfi era un grosso villaggio e non un piccolo insediamento. Probabilmente accoglie circa 150 famiglie che equivale ad una popolazione di oltre 600 individui. Questo centro sorto a 1200 metri sul livello del mare sembra stranamente fuori posto. Non ci aspettiamo di trovare un insediamento di queste dimensioni a queste altitudini perché in inverno il luogo è molto ventoso e gelido. Non è un luogo piacevole nel quale vivere. Che cosa ci fa qui un villaggio così grande che si trova molto più in alto di quelli situati in collina e in pianura? Dobbiamo chiederci perché questa gente si è trasferita lassù. Perché ha costruito le case in luoghi dove per arrivare bisogna arrampicarsi in pareti scoscese? Perché hanno deciso di portare fino a lì le loro famiglie? Perché hanno deciso di trasferire nelle vette di quelle montagne il loro intero sistema economico? La datazione al carbonio effettuata da Nowicki sul vasellame e su altri manufatti lo colloca fra il bronzo medio e il bronzo recente, all’epoca della grande catastrofe nel 1200 a.C. Fino a quel momento la popolazione viveva ancora nelle pianure e nelle valli, in prossimità della costa. Poco prima del 1200 a.C., invece, molti di questi insediamenti al livello del mare sono stati distrutti o abbandonati. Quale fu la causa di questi cambiamenti così improvvisi e radicali? La maggior parte delle teorie si fonda sull’onnipresente minaccia di un disastro naturale. Alcuni puntano il dito su una gravissima siccità che avrebbe interessato tutta l’area dell’Egeo e del Mediterraneo orientale e forse persino parte dell’Europa, provocando una serie di migrazioni. Un’altra possibilità sono i violenti terremoti che sconvolgono questa regione con regolarità. Alla fine della tarda Età del bronzo, nell’arco di 50 anni, varie città nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale sono state distrutte da un sisma. Micene è stata annientata da un terremoto, come del resto Troia quarta, probabilmente la stessa sorte è toccata a Ugàrit e a Megiddo, in Israele. C’è chi ha ipotizzato che un unico evento sismico abbia spazzato via tutti questi centri. Il problema è che sono stati distrutti nell’arco di 50 anni ma in momenti diversi. Tuttavia, anche se i terremoti non coincidono, potrebbero essere collegati tra loro. Esiste qualcosa che oggi i geologi chiamano tempesta o sequenza sismica. Un terremoto a volte non basta a liberare tutta l’energia della faglia, ma ne sprigiona solo una parte. Quella successiva sarà liberata un anno o, forse, un decennio più tardi e allora la faglia si aprirà da est verso ovest o da nord verso sud, e alla fine avremo quello che si definisce una “sequenza sismica”. Di solito dura fra i 30 e i 60 anni. Molte delle città che vengono distrutte dai terremoti si trovano sulla linea di faglia, oppure in una zona ad alta densità sismica. In effetti se sovrapponiamo una carta geografica delle città devastate alla fine della tarda Età del bronzo, con una delle zone ad alta sismicità, troveremo una corrispondenza impressionante. Ma da sempre la teoria del terremoto ha i suoi detrattori. Le comunità si riprendono abbastanza in fretta da eventi simili, anche se ripetuti nel tempo, e, secondo Nowicki, nessun evento naturale può spiegare il fatto che una popolazione si trasferisca in un luogo ancora più inospitale. E’ assurdo che questa gente abbia trasferito il proprio villaggio su un cucuzzolo a 1200 metri di quota. Di solito dopo un evento naturale la gente non scappa e cerca di ricostruire il luogo dove abitava. Per Nowicki questi luoghi così selvaggi rappresentano l’unica risorsa o rifugio difendibile in grado di offrire protezione non da un disastro naturale ma da un popolo nemico. Insomma, non c’è motivo di vivere in una sporgenza a ridosso di una gola o su delle colline rocciose, a meno che non ci si senta minacciati da un altro popolo. Ma se questa teoria fosse vera dovrebbero trovarsi sui pendii di Creta decine di rifugi ancora da scoprire: insediamenti nascosti e dimenticati da secoli. Se gli archeologi li scoprissero ci rivelerebbero dettagli sulla lotta per la sopravvivenza dei superstiti costretti a cercare scampo da quel temibile nemico. Le teorie ipotizzano un disastro naturale, un’epidemia, la collera di un Dio infuriato che ha voltato le spalle…e se invece si trattasse di un nemico in carne ed ossa? E se così fosse, quale popolo sarebbe stato in grado di cancellare dalla storia queste grandi culture nello spazio di appena una generazione? Per decenni gli archeologi passano al setaccio decine di siti ma riescono a raccogliere solo qualche dato scarso. Poi, negli anni ’30, nella Siria settentrionale, viene rinvenuta una tavoletta di pietra che reca un messaggio disperato. Scoperta tra le rovine del palazzo di Ugàrit, distrutto dal fuoco intorno al 1200 a.C., le parole incise sulla tavoletta preannunciano il disastro imminente. Il re di Ugàrit dice: “Padre mio, sono state avvistate 7 navi nemiche, hanno già arrecato grave danno alla mia terra, se scopri qualcosa ti prego di farmelo sapere”. La tavoletta non è mai stata spedita, è stata trovata nel forno pronta per essere bruciata, quando quelle navi sono, ovviamente, tornate indietro e hanno bruciato la città. Chi è il misterioso nemico di cui parla la tavoletta? Solo una civiltà, l’Egitto, sopravvive al collasso dell’Età del bronzo, e gli ha dato un nome. Alcuni antichi geroglifici parlano di un avversario terrificante: i guerrieri noti come popoli del mare. Tutti i particolari sull’aspetto e sui mezzi di trasporto di questa gente ci arrivano dagli egizi. Oltre ai testi che compaiono sulle pareti dei loro monumenti, ci hanno lasciato anche delle rappresentazioni pittoriche che ce ne danno una descrizione. Possiamo osservare i loro elmi, il tipo di acconciature, vediamo che si spostavano con carri trainati da buoi. In alcuni casi accompagnati dalle loro famiglie, le mogli, i bambini e le loro proprietà mobili. Si trattava di una migrazione di massa che ha coinvolto tutte le antiche culture del Mediterraneo orientale. Non era mai accaduto prima di allora, Tutte le civiltà di quell’area, persino le più potenti come quella egiziana, sono state travolte dal loro passaggio. Non venivano soltanto per depredare ma, anche, per insediarsi. Le genti delle coste e delle valli, i pastori e gli agricoltori, si sono precipitosamente rifugiati nelle alture che conoscevano bene. E’ ipotizzabile che quella dell’insediamento montano di Karfi non sia un’anomalia ma un esempio dell’evacuazione sistematica di un popolo. A Karfi notiamo cime ripidissime, insidiosi strapiombi, antichi appigli scavati nella roccia. Poco distante da Karfi, in una cima rocciosa, l’archeologo polacco fa un’altra importante scoperta: l’insediamento di Katalimata. Il sito può essere raggiunto solo scalando una ripida pendenza, per poi arrampicarsi lungo un percorso invisibile dal basso, lungo la parete rocciosa della montagna. Nel 1990 il polacco si fa accompagnare dall’archeologo americano Donald Haggis che gli fa da testimone inoltrandosi nella gola alla quale si accede dopo la scalata. I manufatti ritrovati nel sito delineano il sistema di vita della gente che abitò lassù. Questi semplici contadini e pastori dell’entroterra dovettero trasportare tutte le loro proprietà, una per una, lungo questi sentieri di montagna. I vecchi e i malati devono essere trasferiti di peso e i defunti vengono sepolti in grotte scavate nella montagna. Questa gente è costretta ad abbandonare i campi e il bestiame, infatti lo portano con sé solo se le condizioni lo permettono. Le tracce raccolte dimostrano che il luogo fu abitato per un tempo molto lungo, nonostante sia inospitale e non favorisce lo sviluppo di una comunità. Ma nonostante le condizioni proibitive, Katalimata offre un indubbio vantaggio: assicura protezione. Questi luoghi possono tramutarsi in un incubo per gli stranieri che non li conoscono a fondo. Senza una profonda conoscenza della topografia locale sono posti molto difficili da individuare. Sono come fortezze e sfruttavano la conformazione del terreno, infatti gli abitanti non si limitarono ad utilizzare l’ambiente ma costruirono fortificazioni molto efficaci. Se un eventuale nemico provasse ad avvicinarsi via mare o via terra, sarebbe visibile da chilometri di distanza, dando il tempo di organizzare la difesa. Inoltre gli invasori sarebbero costretti a procedere in fila indiana e durante la scalata lungo la parete non potrebbero impugnare le armi. Un pugno di difensori sarebbe stato in grado di sbarrare il passo ad un gruppo molto numeroso di nemici. Qualche anno dopo la scoperta di Katalimata, l’archeologo polacco ha individuato una sessantina di altri insediamenti risalenti al 1200 a.C. sulle montagne di Creta. Tutti hanno in comune l’orientamento e la struttura e questo convince Nowicki che il nemico arrivava dal mare. I siti sono completamente esposti alle montagne che si trovano alle loro spalle. Questo significa che non si aspettano un attacco da quel versante ma hanno paura dei guerrieri che arrivano dal lontano mare. Ma chi sono questi temibili invasori? Da dove vengono? Dove vanno? La storia, si dice, la scrivono i vincitori, e nell’anno 1180 a.C. il faraone Ramesse III sconfigge i popoli del mare, i misteriosi guerrieri che, secondo alcuni, avrebbero distrutto tutti grandi imperi del mondo antico. Sopravvive solo l’Egitto, e saranno proprio gli egizi a tramandarci la prova più interessante sull’identità di questi predoni. In un memoriale scolpito a Medinet Habu (Tebe), gli egizi identificano 9 fazioni dei popoli del mare. Una lista su cui i linguisti continuano ancora oggi ad interrogarsi. Molte delle teorie sulla provenienza di questi guerrieri sono fondate sulla filologia, vale a dire sui nomi dei vari gruppi. Si ritiene che ogni fazione arrivasse da luoghi sparsi nel Mediterraneo. Ma è il luogo dal quale provengono o quello in cui vanno dopo l’ultimo scontro con gli egizi? Sono ormai decenni che i nomi dei popoli del mare dividono la comunità scientifica. Alcuni indicano la Turchia sud-orientale, il nord della Siria, il Mediterraneo orientale come probabili basi di partenza. Altri affermano che siano originari della Sardegna, della Sicilia e delle regioni dell’Italia meridionale. Secondo una teoria, il mondo antico è molto vulnerabile ad attacchi dall’interno a causa della sua stessa struttura fondata su corti e re onnipotenti. Il sovrano controllava praticamente ogni cosa. Esistevano delle imprese private, dei mercanti, ma è il monarca a governare il paese: comanda l’esercito e gestisce il commercio internazionale, controlla quasi completamente la vita quotidiana dei sudditi. In molte realtà, sembrava che re e regine vivessero accanto agli dei e, in effetti, erano i loro rappresentanti sulla terra. Inoltre c’è sempre un esercito sotto il controllo del sovrano. Al di sotto ci sono tutti gli altri, il cui unico ruolo è quello di assecondare tutti i desideri delle divinità e del monarca. Per operai e contadini, l’unico modo di fuggire a questo rigido sistema gerarchico è di prestare sevizio nelle armate del re. Per scoprire il loro ruolo è necessario capire come si combatte nel mondo antico. Probabilmente il fulcro di una tipica battaglia dell’Età del bronzo era la carica di due aurighi, uno contro l’altro. Di sicuro erano centinaia, forse persino migliaia, e i guerrieri sui carri disponevano di armamento pesante. La loro arma principale era l’arco composito, dunque i combattimenti erano sempre a lungo raggio. Naturalmente, una volta colpito il bersaglio e fermato il carro nemico, qualcuno doveva andare ad uccidere l’equipaggio. E’ in questa fase che entravano in gioco i cosiddetti “corridori”, i barbari ingaggiati per terminare l’opera nelle battaglie iniziate dai carri. Questi anonimi gruppi di mercenari sono reclutati nelle parti più disparate del mondo antico, spesso in quelle più povere. Le tavolette in nostro possesso specificano in modo chiaro che a corte gli aurighi erano trattati coi guanti bianchi. Probabilmente si trattava di una vera e propria elìte, invece i corridori facevano più che altro numero. Insomma, dal punto di vista della classe sociale c’era un’enorme differenza fra queste due categorie. Durante i periodi di guerra questi fanti hanno un loro ruolo, ma negli anni che portano al grande collasso si registra un periodo di pace senza precedenti. Il trattato siglato da Ramesse II e dagli Ittiti, aveva messo fine alle ostilità. E’ un po’ quello che è accaduto dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale con la firma dei trattati di pace da parte delle grandi potenze. Questo trattato ha messo fine alla secolare guerra tra i due colossi dell’epoca e ha garantito circa 50 anni di pace. Sicuramente ci fu un periodo di grande prosperità, poi arrivò il collasso. E’ possibile che la mancanza di lavoro abbia spinto i corridori, i soldati di rango più basso, alla rivolta? O, forse, questi soldati disoccupati vengono arruolati da un nemico esterno? Senza una forte autorità centrale, questi guerrieri erano abbandonati a loro stessi, o si trovavano sotto la supervisione dei capi locali. Potevano fare di tutto, erano praticamente intoccabili. I documenti egizi indicano che per più di 50 anni nel mondo antico, una nuova coalizione conquista i gangli nevralgici del potere. Quegli stessi documenti ci dicono che ci sono state successive ondate di popoli del mare, e fra la prima e la seconda invasione si registra un cambiamento nella composizione di questi gruppi. Di certo collaborano come alleati, ma non è sempre stato così: quello che vediamo non è che il risultato finale, è l’ultima onda che si sta infrangendo contro l’Egitto. Come dimostrano i bassorilievi, i popoli del mare sono armati, più o meno, come i corridori che affiancano i carri da guerra egizi. Non dispongono di armamento molto pesante perché li avrebbe rallentati oltremisura, limitando l’efficacia durante il combattimento. Usavano piccoli scudi rotondi, formati da una struttura di legno ricoperta di cuoio, e indossavano un elmo. Non era molto pratico ma aveva un effetto psicologico positivo oltre ad offrire una difesa alla testa. Anche se forse non sarà possibile risalire all’origine esatta di questi guerrieri, possiamo individuare una delle loro basi di appoggio: a Kastri, sulla costa cretese, ci sono i resti di un insediamento molto diverso da quelli dislocati nelle montagne. In cima ad una collina sul mare ci sono resti di merlature che indicano una forza bellica con una certa esperienza. Quelli che vivevano a Kastri non erano semplici contadini o pastori, l’area è troppo esposta. Un piccolo gruppo di agricoltori non è in grado di difenderla. Qualunque invasore avrebbe potuto sopraffarli facilmente. L’approdo di Kastri offre notevoli vantaggi a chi si muove per mare ed è di fronte alle coste di Creta, a quelle italiane e alle isole vicine. Poteva ospitare una flotta navale e qualche centinaio di soldati; questo era sufficiente per organizzare un’invasione alle coste dell’isola. Del resto anche negli anni ’40 anche gli invasori tedeschi occupano la collina nel tentativo di controllare Creta. Ma mentre i tedeschi sono stati cacciati via, i misteriosi guerrieri dell’antichità riescono a soggiogare l’intero egeo. Il livello di devastazione, specialmente nell’Anatolia e nella Grecia centrale non dà l’idea di un gruppo disorganizzato, ma indica la presenza di una macchina militare di grande efficacia. Nonostante questa potenza sia composta da invasori stranieri, guerrieri locali insoddisfatti o dalla loro combinazione, la domanda fondamentale è: come è possibile che un’accozzaglia di mercenari riesca a spazzare via le più grandi potenze del passato? Forse la risposta non è nell’origine di questi popoli, ma nelle loro tattiche di guerra. La rovina delle città micenee e le città costiere fatte a pezzi sono la dimostrazione della forza d’urto di questi invasori. La disperazione dei sopravissuti è percepibile dai precari avamposti di montagna che hanno costruito su Creta. Tutte queste grandi civiltà, dai minoici agli Ittiti, sopravvivono a pestilenze, carestie e terremoti, ma soccombono ad un nemico in carne e ossa, una misteriosa armata di barbari chiamata “popoli del mare”. Ma questi invasori non hanno né carri da guerra né armature, come possono affrontare gli eserciti nemici? La risposta cambierà per sempre il modo di combattere le guerre. Nel XIII a.C. qualcuno ha finalmente compreso che per vincere una battaglia non servono costosi contingenti di soldati su carri da guerra. Per annientare un’armata composta da carri basta mettere insieme un numero sufficiente di corridori. Un’arma in particolare permetterà di trasformare questi semplici fanti in formidabili guerrieri, un semplice strumento che prima del collasso viene usato soprattutto per la caccia: il giavellotto. E’ un’arma corta, misura poco più di un metro di lunghezza, e ha la punta forgiata in metallo. Forse non erano in grado di produrre sempre ferite letali, ma se centravano il bersaglio provocavano molti danni. Quando il carro diventa inservibile, di colpo l’auriga viene circondato dai corridori e diventa vulnerabile. L’auriga e il suo arciere indossavano come armatura un corpetto a squame metalliche di peso variabile fra i 15 e i 20 chilogrammi, quindi non potevano fuggire e non erano in grado di difendersi in un combattimento corpo a corpo. E’ in situazioni del genere che uno sciame di corridori armati con spade corte e scudi leggeri è in vantaggio in termini numerici e di mobilità. A quel punto è sufficiente ferire il cavallo, e il carro diventa inutile. Se si riesce ad abbattere l’animale col giavellotto da una distanza di 40/50 metri, si può accorciare la distanza di combattimento e ingaggiare un corpo a corpo con armi adatte. Dopo ogni vittoria gli invasori aumentano di numero e si espandono in tutto l’Egeo. Solo l’Egitto è in grado di resistere al loro impatto, anche se non ritornerà più ai fasti di un tempo. Ma come hanno fatto le armate del faraone a opporsi a un’orda che ha spazzato via potenze del calibro dei micenei, degli ittiti e dei minoici? C’era una frenetica attività diplomatica e commerciale e, in particolare, una grande quantità di oro aveva lasciato l’Egitto mentre si importavano cavalli e ogni altro tipo di beni, dunque fra queste potenze si viveva un periodo di grande comunicazione. Era arrivata la notizia che alcuni popoli erano in arrivo nei territori egiziani e questo fu fondamentale per organizzare le difese. Per affrontare questi invasori hanno spostato anche la capitale a nord del regno. Gli egizi ottenevano informazioni per mezzo di messaggeri e corrieri che fuggivano dalle altre potenze man mano che soccombevano. Certamente nel mondo antico esistevano straordinarie reti di spionaggio e sicuramente l’Egitto disponeva di un proprio gruppo di informatori, perciò sapevano cosa stavano per affrontare. A quel punto appresero che a dispetto del loro nome, i popoli del mare prediligono combattere a terra e non in acqua. Nel 1179 a.C. Ramesse III ha pensato bene di impedire a questi predoni di sbarcare nel paese. Gli egizi ci hanno lasciato resoconti testuali e pittorici che descrivono uno scontro che si svolse presso un luogo dove l’acqua era presente, anche se non si sa bene se fosse il mare o l’estuario di un fiume. Ci sono delle imbarcazioni, si vedono uomini affogare…è una battaglia navale in piena regola. Gli invasori erano a bordo delle loro navi, e in acqua erano vulnerabili, perciò gli arcieri egizi li presero di mira dalla costa e dalle loro imbarcazioni, è stato un tiro al bersaglio. Decimata dagli arcieri del faraone, l’ultima ondata dei popoli del mare si disperde, ma quella guerra ha cambiato volto per sempre alla storia dei combattimenti. Nella tarda Età del bronzo la difesa di un territorio si basava su unità di aurighi e sui loro arcieri. Nell’Età del ferro, successiva a questa catastrofe, la fanteria ha acquistato sempre maggiore importanza, mentre i carri hanno assunto un ruolo sempre più marginale. Continuavano ad essere impiegati nelle operazioni di fiancheggiamento perché c’era sempre bisogno di una forza a cavallo, ma adesso il fulcro di ogni esercito era la fanteria. Nel giro di pochi anni i re e gli eserciti del mondo antico crollano di schianto. Al loro posto emerge una nuova classe dirigente: i popoli del mare creano un vuoto di potere. Quando eliminano le grandi potenze della tarda Età del bronzo, la situazione cambia di colpo: l’elìte di un tempo viene spazzata via, restano le classi inferiori, contadini, allevatori e schiavi. Adesso cosa faranno, una volta sopravissuti? Nel caso dei pastori e degli agricoltori di Creta le tracce archeologiche parlano chiaro: dopo la dispersione dei popoli del mare, lentamente i sopravissuti tornano a popolare le valli, molto più vicino ai campi. Non sentiranno più il bisogno di difendersi costruendo insediamenti ad alta quota. Per quanto riguarda i popoli del mare, gli egizi ci dicono che alcuni si stabilirono in Egitto integrandosi, altri arrivarono nella terra di Canaan. Alcuni testi riportano che a Dor, al centro di Israele, si stabilirono gli Zeker (Tjeker) e che anche i peleset finirono a Canaan, e sono diventati i filistei. Ci fu un mescolamento di popoli e solo un esame del DNA potrà in futuro darci una risposta a riguardo. E’ probabile che tra loro ci fossero molti dei sopravissuti delle civiltà che avevano spazzato via prima di fare rotta sull’Egitto. Perciò del loro contingente facevano parte anche gruppi di micenei, di minoici e di ittiti. Del resto a molti non rimase altra possibilità che unirsi a loro, alla stessa gente che aveva messo fine alla loro civiltà. E’ dunque possibile che i popoli del mare abbiano assorbito parte delle popolazioni che avevano sconfitto in battaglia. Quello che è innegabile è che dopo il crollo emerge qualcosa di totalmente nuovo. Per alcuni secoli si avrà un’età oscura in quelle terre, nel quale si assiste ad un rimescolamento delle diverse etnie, ma dalle ceneri della civiltà nasce quella fenicio-greca e sulla scena compaiono nuovi sistemi politici e nuove civiltà. Con l’arrivo dei greci emergono alcune novità che, col tempo, portano alla nascita della democrazia. I popoli del mare hanno distrutto un mondo, ma pur con le peggiori intenzioni hanno creato nuove opportunità per gente che prima non ne aveva mai avute. Sulla scena compaiono gli israeliti, Davide e Salomone e i regni di Israele e di Giuda, che probabilmente non avrebbero visto mai la luce senza il crollo delle potenze della tarda Età del bronzo. Dunque i popoli del mare determinano il crollo del vecchio regime e l’inizio di una nuova era. L’esatta catena di eventi che ha portato alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra è ancora parzialmente avvolta nel mistero. Fu una combinazione di circostanze, i popoli del mare hanno avuto fortuna ma il loro tempismo è stato perfetto: hanno tratto vantaggio da una serie di disastri naturali. Ci sono eventi che da soli non sono sufficienti a provocare il crollo di una civiltà, ma messi insieme finiscono per provocare un effetto di amplificazione. I popoli del mare sfruttarono una falla nel sistema interno di quelle grandi civiltà del passato. Difficilmente gli egiziani o gli ittiti immaginavano di crollare in modo così repentino, ma quando così tanti fattori non collegati l’uno all’altro si uniscono, scatenano un effetto molto più potente della somma delle parti. Una siccità può avere un effetto limitato e lo stesso vale per un terremoto, ma se sommiamo un paio di catastrofi naturali ad eventi calamitosi provocati dall’uomo il risultato può essere del tutto inatteso.
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